La legge è uguale per tutti, dicono. Per tutti gli altri. “Si può sfuggire all’arbitrio del giudice solo rifugiandosi sotto il dispotismo della legge”, diceva Honoré de Balzac. Non è un normale connubio quello che lega le parole “legge” e “giustizia”, semplicemente un rapporto che in Italia si fa sempre più strano, astruso, incoerente. Burocrazia senza fine e sentenze che, invece, un fine ce l’hanno: quello di non dire nulla. Già Hans Kelsen, nella sua Teoria generale del diritto e dello Stato, affrontava dal profondo l’argomento, individuando nel rapporto diritto-giustizia la propensione dell’uomo al raggiungimento della felicità: se l’uomo non può trovare la felicità nell’individuo allora la cerca nella società, ed ecco perché la felicità sociale è giustizia. La giustizia invece è la dimensione morale del diritto, la meta che questo si impone di raggiungere, la “cosa in sè” kantiana, il bene assoluto o l’idea stessa a cui lo schiavo, uscito dalla caverna Platonica, vuole arrivare. Insomma, l’immagine di un uomo consapevole di galleggiare in un mare di ingiustizia e, per questo, determinato a volerne uscire per aspirare ad una perfezione quasi incompatibile col diritto umano. L’espressione “La legge è uguale per tutti” nasce proprio dal fatto che tutti gli uomini hanno sete di felicità. L’eterno inseguimento di quella dimensione morale chiamata “giustizia” implica però presa di coscienza, responsabilità. Perfino il nostro Codice Civile considera quest’ultima come l’altra faccia dell’autonomia privata, l’assoggettamento ad una sanzione, l’assunzione delle conseguenze derivanti da un atto illecito. La stessa concezione di libertà implica responsabilità e questo spiega perché, nonostante i discorsi illusori, questo tipo di società ci fa accontentare di non essere liberi, diversamente appagati, diversamente felici.
Il passaggio cruciale, quello in cui va individuato il passaggio netto dalle “vecchie” dittature di regime alle nuove democrazie occidentali, consiste proprio nello slittamento del potere da uno solo a più individui: eletti o non eletti (vista la grande democraticità delle liste bloccate, per fare un esempio), ma pur sempre protagonisti esclusivi di decisioni determinanti le sorti di un intero paese. Firmano, si accordano, decidono della vita di migliaia di disgraziati, tutti insieme, tutti concordi, tutti omertosi. Ma chi si assume la responsabilità? Tutti? No, nessuno. Non esiste responsabilità solidale, figuriamoci quella individuale. Quella della mossa sbagliata che rischiava il suo piazzale Loreto. La deresponsabilizzazione della politica altro non è che svilimento del suo stesso fine etico, fenomeno che fa della politica il mezzo per il raggiungimento di scopi individuali mascherati da missioni di pubblico interesse per una “Patria” sepolta nei libri di scuola.
È ciò che in Italia traspare dalle prima pagine dei giornali. Il messaggio che arriva al lettore è sempre lo stesso: nessuno ha colpa. Anzi, se parliamo poi di quel personaggio diventato famoso per la vicenda della Costa Concordia naufragata il 13 Gennaio 2012 sull’Isola del Giglio, allora la situazione si capovolge doppiamente. Non bastò il fatto che la storiella del Capitano Schettino, alle prese con la sua bella bionda, fece il giro del mondo perché la morte di troppi innocenti a bordo di quella nave non trovò mai giustizia. Quella stessa giustizia, tutta italiana, ha voluto perfino che l’Ex Comandante della Costa Concordia, ottenesse un rimborso di 26mila euro da parte della stessa compagnia Costa Crociere per vie delle spese legali.
Discorso a parte invece quello gira intorno al mistero della morte del giovane Stefano Cucchi. Nessun colpevole, tutti assolti: è ciò che viene deciso da una sentenza definita da molti “assurda”, eppure una decisione raggiunta “perché il fatto non sussiste”. A nulla è valso lo sfogo di una mamma che sente il figlio morire ancora una volta; l’infelicità di una sete di verità e giustizia che non viene appagata. Quanto può essere stretto quel legame tra diritto e giustizia in questo caso? Quanto può essere definita “giusta” una legge che omette – perchè incapace di trovarla – ogni tipo di responsabilità che ogni parte di quel corpo maltrattato comunica? Ma d’altronde cosa pretendiamo da un Paese che nasconde i suoi scheletri nell’armadio del potere? Da un contesto controllato da un’omertà fatta Stato. La stesso che chiamava Napolitano a deporre su una Trattativa in cui riemergono particolari finiti chissà dove per troppi anni. “D’altronde mica è Pico della Mirandola: di progetti di attentato lui ne subisce due o tre al giorno, non è che possa ricordarseli tutti – diceva bene Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano – E poi, nel giro dei politici, queste cose si dicevano. Ma è meglio che le sappiano solo i politici, che quanto a omertà sono molto più affidabili e impenetrabili dei mafiosi. I magistrati e i cittadini, invece, sono sempre gli ultimi a sapere. Come i cornuti”.